Un anarchico giustiziere
- Dettagli
Michele Angiolillo – protagonista di “Questionario per il destino” – era nato a Foggia il 5 giugno del 1871 da famiglia di modeste condizioni. Il padre, Giacomo, faceva il sarto mentre la madre, Maria Michelina Lombardi, si occupava dei figli. Angiolillo frequentò l’istituto tecnico “Pietro Giannone” di Foggia e, giovanissimo, si iscrisse al Partito repubblicano intransigente. Poco più che ventenne, diventò segretario politico del circolo “Aurelio Saffi”. Fu il servizio militare a radicalizzare ancora di più le sue posizioni politiche. Angiolillo era stato chiamato alle armi nel 1892, a Napoli, come allievo ufficiale. Nel capoluogo campano fu protagonista di una dura contestazione nel corso di una commemorazione della Repubblica partenopea del 1799 e per questo fu accusato di propaganda sovversiva. Degradato e spedito a Parma e successivamente alla Quinta compagnia di disciplina di Capua (dove subì le brutalità della “rieducazione” degli ufficiali dell’esercito), nel 1894 fu congedato; nello stesso anno - il 22 settembre - il governo Crispi dopo l’approvazione delle leggi speciali per la repressione antianarchica (leggi che avevano introdotto il domicilio coatto per i presunti sovversivi), decretò lo scioglimento di tutte le associazioni anarchiche, socialiste e operaie.
Tornato a Foggia, Angiolillo si allontanò dal Partito repubblicano per assumere posizioni politiche di lotta alle istituzioni. Intanto aveva ripreso a lavorare nella tipografia “Pascarelli” di via Arpi. Durante la campagna elettorale del 1895, scrisse, stampò e diffuse un manifesto di propaganda per la candidatura del socialista Nicola Barbato. Quel manifesto era, in realtà, una forma di protesta contro il governo Crispi e non un atto politico a favore del Partito socialista. Subito identificato, Angiolillo fu accusato di “eccitamento all’odio fra le classi sociali” - reato previsto dall’articolo 247 del Codice penale Zanardelli - e arrestato. Rilasciato in libertà provvisoria, il giovane tipografo pubblicò, il 31 luglio dello stesso anno, una lettera aperta contro il Procuratore del re, inviata anche al Ministro della Giustizia. «Addito a S.E. - scrisse Angiolillo rivolgendosi al ministro - questa carogna togata che non esito a definire “uomo di fango”. Il cav. Gioia (il procuratore del re, n.d.a.) è non una volta ma un milione di volte vigliacco perché di quel potere che gli è stato affidato a difesa dei deboli e degli oppressi, se ne vale per sfogare il suo vile odio contro di me». Per la lettera inviata al ministro fu condannato in contumacia a 18 mesi di carcere e a tre anni di domicilio coatto alle Isole Tremiti. La condanna non la scontò: prima ancora che potesse essere arrestato, il tipografo espatriò. Salì sulla “Valigia delle Indie” e raggiunse Marsiglia; due mesi dopo si trasferì a Barcellona, in quegli anni culla dell’anarchismo europeo.
Nella città spagnola, Angiolillo entrò in contatto con il movimento anarchico protagonista degli scioperi per l’aumento del salario. Il clima era di scontro, le bombe contro le autorità civili e militari erano il segnale di una contrapposizione forte ma anche di un malessere sociale diffuso che portò il governo liberale di Mateo Praxedes Sagasta a eseguire - a partire dal 1892 - arresti illegali, a sospendere le garanzie costituzionali, a ricorrere massicciamente alla tortura per i “sovversivi” anarchici, socialisti e repubblicani.
Angiolillo era a Barcellona la sera del 7 giugno 1896, quando una bomba scoppiò durante la processione del Corpus Domini mentre il serpentone di fedeli stava attraversando calle Cambios Nuevos. Dodici i morti e quaranta i feriti per una strage subito attribuita agli anarchici. Poche ore dopo scattò la repressione decisa dal governo di Canovas del Castillo. Quattrocento persone tra anarchici, socialisti e repubblicani furono arrestate, rinchiuse e torturate nella fortezza di Montjuich.
Il tipografò scappò e tornò a Marsiglia. In Francia fu ancora individuato, arrestato e processato per aver fornito false generalità. Tornato in libertà, il tipografo foggiano fu espulso e accompagnato dalle autorità di Marsiglia al confine con il Belgio. Angiolillo andò a Liegi, a Bruxelles e poi a Londra, città dove molti anarchici arrestati e torturati per la strage di Barcellona e successivamente rilasciati, trovavano rifugio. Decisivo fu, per Angiolillo, l’incontro a Londra con Francisco Gana, che nel 1899 morirà per i postumi delle torture subite nella fortezza di Barcellona. Nel corso di una riunione nella sede dell’associazione “Typographia”, Gana mostrò ai presenti le cicatrici e parlò delle torture subite ad opera dei militari del governo spagnolo. L’episodio turbò profondamente il tipografo foggiano: secondo alcuni storici, fu nel corso di quella riunione che Angiolillo giurò silenziosamente vendetta. Francisco Gana parlò in pubblico al termine di una grande manifestazione, organizzata a Londra il 30 maggio del 1897 a Trafalgar Square dallo “Spanish atrocities committee”, un comitato di esuli che aveva l’obiettivo di informare l’opinione pubblica europea sulla repressione del governo spagnolo. Contemporaneamente anche a New York gli anarchici manifestarono contro Canovas. In quella occasione, l’anarchica Emma Goldman disse: «Non credo che i rappresentanti del governo spagnolo negli Stati Uniti siano abbastanza importanti da meritare la morte; tuttavia se mi trovassi in Spagna in questo momento ucciderei Canovas del Castillo con le mie stesse mani».
Nei giorni immediatamente successivi alla manifestazione di Trafalgar Square, Angiolillo comprò una pistola e partì per Madrid. L’obiettivo del viaggio era vendicare i suoi compagni torturati e condannati per la strage di Barcellona, ma prima di arrivare a Madrid Angiolillo si fermò a Parigi, dove incontrò il dottor Ramon Emetrio Betances y Alcan, medico portoricano noto per le sue lotte a favore dell’abolizione della schiavitù e per l’incitamento alla rivolta del popolo contro la Spagna. A Betances, Angiolillo rivelò il suo progetto, ma il tipografo aveva intenzione di uccidere il giovanissimo re di Spagna Alfonso XIII o la regina reggente di Spagna. Il portoricano convinse Angiolillo a destistere poiché l'uccisione del giovane re o della regina reggente avrebbe causato «gran ripugnanza».
Il 4 agosto del 1897, Angiolillo arrivò alle terme di Santa Agueda, a Mondragon, dove il
presidente del Consiglio dei Ministri, Canovas del Castillo, era in vacanza. Domenica 8 agosto, l'anarchico uccise il capo del governo spagnolo con tre colpi di pistola; dopo l'attentato, non scappò e si lasciò arrestare. Processato, nel corso della sua autodifesa disse: «Io non sono un assassino ma un giustiziere». Condannato a morte, fu giustiziato nel carcere di Vergara il 20 agosto. Gridò, prima di morire, “Germinal!”, il titolo del libro di Emile Zola. Fu seppellito in terra sconsacrata, avendo rifiutato i conforti religiosi.
«Angiolillo è morto coraggiosamente», scrisse il New York Times.
Il gesto di Michele Angiolillo provocò conseguenze importanti a livello internazionale.
Era attento ad esempio alla sua eleganza: era certo un bel vedere quel ragazzo nei suoi abiti sempre a posto e puliti, negli stivali lucidi che non amava inzaccherare nel fango e nelle acque nere di colera degli acciottolati. Chiaramente anche nella bottega tentava di mantenere questo decoro abbastanza femmineo e nient'affatto operaio; difficile tuttavia da tenere in cura lì, tra il piombo nero come tizzoni e i densi inchiostri delle macchine che solo a guardarli sembrava che lordassero gli occhi. La sua eleganza era completata da un vezzo. Aveva almeno tre borse diverse che alternava con capriccio, senza un preciso motivo. Erano cartellette buone per metterci dentro carte, giornali e libri: un tascapane di stoffa doppia nera e due borsetti, uno di tessuto di Genova e l'altro di cotone duro, ma così duro che a lasciarlo al sole o in una stanza secca diventava legnoso e addosso sentiva sbattere come una trave di solaio. E guai a prendere una macchia sui calzoni o su un borsetto. Era un bel ragazzo, certo: fronte spaziosa, fisico slanciato, curato nell'aspetto. La barba giovane e i pesanti occhiali da miope che era costretto a portare, poi, lo aiutavano a parare le fattezze di quel naso che, c'è da dire, spuntava dal viso ovale come una speciale arma pronta a disorientare l'avversario in duello. Nulla del suo fisico, però, riusciva a dissimulare quella timidezza di cui si è detto, che derivava da una spropositata bontà d'animo.
(Tratto da “Questionario per il destino”)